Public Works

Il seguente articolo è stato pubblicato originariamente in un mio precedente catalogo. Ha suscitato grande attenzione da parte del  pubblico ed è stato ripreso anche dal quotidiano «La Stampa», che nell’edizione del 3 marzo 2012 ne ha citato una parte considerevole. Ringrazio l’autore, il Prof. Dr. C. Wolfgang Müller, per il consenso alla ristampa, che ne permette ulteriore diffusione. Ringrazio, inoltre, «La Stampa» per il facsimile della citazione. Un ulteriore ringraziamento va alla Dr.ssa Cristiane Müller-Wichmann per la sua preziosa consulenza.
Carin Grudda

SULLA RICONQUISTA DEGLI SPAZI

Prof. Dr. Wolfgang Müller per Carin Grudda

In Italia, per un lungo periodo del Medioevo, l’arte figurativa rientrava fra le forme di artigianato. Allo stesso modo, pittori e scultori erano considerati alla stregua di artigiani e come tali venivano retribuiti. In quanto committente, la Chiesa stabiliva soggetti e temi dei dipinti. L’imitazione dei grandi maestri veniva data per scontata. L’originalità individuale non era contemplata. Il luogo dove l’opera sarebbe stata esposta era già stabilito fin dall’inizio. Per affreschi e pale d’altare tutto era già prefissato, al massimo il pittore poteva aggiungere la raffigurazione del donatore in un angolo del dipinto.

Il Rinascimento italiano portò ad una progressiva emancipazione dell’arte dalla dimensione artigianale e dalle imposizioni dei committenti. Questo graduale processo, da una parte, rese l’artigiano un artista, dall’altro svincolò l’opera d’arte dal suo contesto locale: il committente – un mecenate che aveva rapporti personali con l’artista – venne sostituito dal collezionista e in seguito dai singoli acquirenti.

In Olanda, paese dedito al commercio con l’estero, si formò un nuovo pubblico, che non commissionava più opere d’arte ma le acquistava direttamente dai mercanti in base ai propri gusti personali, attribuendogli la funzione di investimenti finanziari e di simboli di prestigio sociale. I collezionisti fungevano da intermediari. Quadri e sculture viaggiavano di città in città e, quando venivano conquistati come bottini di guerra, potevano essere trasportati nel corso dei secoli attorno a tutto il globo. Gli scavi archeologici delle antichità greco-romane fecero il resto: la via sacra di Babilonia (risalente all’epoca di Nabucodonosor II, 604–562 a. C.) venne collocata nel Museo di Pergamo di Berlino, rimuovendola dal suo contesto originario e ricostruendola su un neutrale sfondo museale del XX secolo, per poi essere, nel corso della II Guerra mondiale, più volte smontata e risistemata. Essa fu dunque sradicata dal luogo e dall’epoca in cui era nata, per essere esposta come merce destinata al consumo.

Un secolo dopo l’apertura del Museo di Pergamo a Berlino, si delinea, almeno in Europa centrale, un duplice rapporto delle opere d’arte contemporanea con lo spazio e il tempo. Da una parte, viene portato all’estremo il processo di commercializzazione dei prodotti artistici. Dall’altra, si sviluppa una riflessione sulla qualità estetica dell‘ambiente urbano nella vita quotidiana. Gli artisti hanno di nuovo un luogo stabile e non creano più per un pubblico sconosciuto potenzialmente sparso in tutto il mondo. Essi affermano di vivere in una determinata città e di creare, per un’altra determinata città, ad esempio, un gatto da fiaba su cui i bambini potranno cavalcare. Illuminati sindaci di nuovi comuni, sorti ai margini di grandi centri urbani, si sforzano di dare una riconoscibilità ai loro paesi. Gli artisti desiderano riconquistare quella dimensione estetica, che è stata costitutiva per la vita dei nostri nonni e che è andata persa perché città e territorio, lavoro e abitazione, professione e vita sono stati separati attraverso complessi processi di scissione, e perché non è possibile ripristinare i sogni infantili dei nonni tramite le periferiche dei videogiochi dei bambini

La connessione fra mondo infantile e modernizzazione dello spazio della vita quotidiana, nata ed evolutasi con le innovazioni del XXI secolo, può diventare un obiettivo per gli artisti contemporanei. Essi, in realtà, pur guardando verso il futuro, possono accettare la sfida di volgere uno sguardo al passato dove ha inizio la propria storia, che è infinita così come la ricerca di un incerto avvenire.

«Back to the roots» (ritorno alle radici) era un salutare invito non solo della psicoanalisi. «Back to the rooms» (ritorno agli spazi) potrebbe essere un salutare invito alle attuali correnti dell’arte visiva, che si è lasciata alle spalle la dicotomia fra «interno» ed «esterno» e ricerca la connessione fra la familiarità della casa della nostra infanzia e l’estraneità della vita successiva, tra l’intimità delle mura paterne e la lontananza dei luoghi nei quali tutti noi dobbiamo tentare di trovare una nuova casa.

Ci sono artisti, come Carin Grudda, che si sono dedicati a questo compito. E ci danno speranza.

Prof. Dr. Wolfgang Müller

L’autore
C. Wolfgang Müller, Dr. phil., Dr. h.c. e Professore Emerito presso l’Università di Berlino, è Docente di Sociologia e di Scienze dell’Educazione in Germania. A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, quando compì i suoi studi negli Stati Uniti, si occupa di ricerche sulla «Community Organisation» e sul «Community Development». Grazie alle sue pubblicazioni in questo campo, ha ricevuto numerosi riconoscimenti e titoli d’onore.