La civetta di Minerva spicca il volo sul far della sera

L’incontro tra Carin Grudda e la giornalista Kerstin Bachtler inizia con un’intervista:

Cinque anni fa Kerstin va a trovare Carin nel suo studio per girare un film sulla sua vita. Segue da vicino il suo lavoro e ne rimane affascinata: vedere Carin all’opera fa sorgere in lei mille interrogativi e curiosità. E Carin, che è interlocutrice franca e schietta, la ripaga con risposte che vanno ben oltre le esigenze della classica intervista. Nasce così tra Kerstin e Carin un intenso dialogo personale che di lì a poco culminerà in una sincera amicizia.

Kerstin Bachtler è tornata a intervistare Carin Grudda, riproponendole alcune domande sul suo percorso sia artistico che umano.

L’opera d’arte, il processo creativo: Quando nascono per te? E con cosa?

Nascono a monte, con la ricerca del materiale.

Che tipo di materiale?

Da circa tre anni lavoro con i materiali di recupero. Alcuni li trovo in spiaggia: sono assicelle, pezzetti di legno, parti di fasciame, barattoli arrugginiti, materiale con una vita precedente che si narra attraverso la propria traccia; materiale usato, logoro, sul punto di svanire. Lo raccolgo e lo analizzo, e la parte che mi piace, vuoi per un certo colore, vuoi per qualche struttura o forma bizzarra, la conservo. A ben vedere è materiale indegno ai fini dell’arte. Ma fondendolo successivamente in bronzo – parliamo di vecchie suole, scarpe, tappi in sughero, la stessa sabbia resa supporto – riesco a bloccarlo nello stato della sua dissoluzione; attraverso questa rivelazione estetica strappo gli oggetti al loro destino, li preservo dal finire tra i rifiuti. Lo stesso accade quando li inserisco all’interno dei quadri, dove assurgono a simbolo del movimento: movimento del divenire che si concretizza in un determinato essere per poi dissolversi e condurre ad altre forme di esistenza.

Il più delle volte questi materiali sono identici con il loro supporto. L’altro luogo deputato alla «caccia di tracce» è la fonderia toscana dove realizzo le mie sculture, un posto in cui si lavora moltissimo con il fuoco. Qui mi interessano le tavole della corsia a rulli, quelle dove si appoggiano gli stampi per eseguire le lavorazioni, dove si sfiammano i distaccanti ceramici e si realizza il processo di colata in terra.

Questi supporti più tardivi si distinguono per l’insieme delle loro tracce, che sono di sabbia, gesso e fuoco. È da qui che parte il mio iter creativo: dalla cernita del materiale che mi propongo di utilizzare.

Perché quel materiale io l’ho preventivamente raccolto e suddiviso, e quando inizio a fare un quadro o un bronzo – solitamente sono cicli – scelgo i materiali e i supporti secondo me più adatti a esprimere il soggetta che ho in mente. Il che mi porta al passo successivo.

Stendo a terra una o due tavole e inizio a intessere un dialogo, a valutare, ad assaporare. Appoggio sulle tavole uno o due legnetti, invertendone ripetutamente le posizioni. Tutto ad un tratto si formano dei collegamenti che subito verifico. Verifico, cioè, se per ipotesi si potrebbe trattare di una faccia o qualcosa che le somigli. A volte tutto ciò può prendere parecchio tempo, tipo un pomeriggio o anche un giorno intero.

Mentre accumulo il materiale, dentro di me si crea un clima cromatico, un aroma, una specifica atmosfera. È un po come quando giochi a scacchi: valuti una miriade di mosse dentro la tua testa prima di eseguirne una sulla scacchiera. Come esempio potrei citarti il Fante di Cuori che ho realizzato per gli ambulatori di un centro cardiologico. Eccone il supporto, è una vecchia porta di legno. Ci appoggio sopra una tavola bruciata con in mezzo un foro ed ecco apparirmi un occhio. La tavola a questo punto ha deciso di essere un volto. Poi penso: guarda quant’è vuoto quest’occhio, e siccome amo i chiodi fucinati a mano, voilà – ce ne pianto dentro uno. È brutale, lo so, dietro però c’è «L’age d’or» di Dalì e Buñuel, il film in cui si taglia un occhio, è questo e quanto mi sovviene sul momento. Carpita alle spalle dalla civetta di Minerva.

Dunque non sempre il soggetto precede e inforna la ricerca del materiale; a volte trovi delle cose, e con esse, contestualmente, L’argomento del tuo lavoro. Come si configura il rapporto in questo caso? Parti che hai già chiaro il soggetto, oppure insieme ai tuoi materiali ricerchi anche i soggetti?

L’uno e l’altro, le due cose vanno insieme. A volte c’è già un soggetto, e allora in base a quello oriento le ricerche. Altre volte tutto somiglia più a un brano musicale, a un qualcosa di sospeso che si concretizza in seguito. Ogni tanto capita che il soggetto precedentemente definito improvvisamente si dissolve, perché una certa forma ti svia per altre strade, evocando forme che non sospettavi. Prendiamo il FANTE DI CUORI dicevo: in un prima momento doveva diventare una Dama di Cuori, tuttavia la cosa dentro di me non riusciva a risolversi, perché mentre ero al lavoro mi sono imbattuta in due oggetti, un’antica faretra intagliata a mano che ho poi inchiodato sulla tavola e uno di quei bastoni di legno che si utilizzano nelle colate per togliere le scorie. La punta di questo bastone incenerisce a 1300 gradi. Io l’ho rivestito di lamina d’oro, quindi infilato nella faretra. A questo punto era ovvio che avrei fatto il fante.

Tutt’al più c’era lo spazio per una Diana, ma con quella sarei andata fuori tema, dopo tutto l’argomento da trattare era quello dei cuore. Subito dopo notai quattro caramelle di bronzo. Pensai allora che a questo fante un tantino austero avrei dovuto donare qualcosa di dolce: un po’ della mia Dama evidentemente agiva ancora. Alla fine, insomma, una cosa tirava l’altra, non ultima l’idea della carta da gioco quale determinante del clima cromatico: un austero disegno rosso-verde, prontamente ridicolizzato dalla citazione unilaterale su una sola delle due gambe.

Parliamo delle tue Porte, le porte che hai dipinto. Personalmente ne sono rimasta molto colpita. Sono completamente diverse dalle immagini che solitamente proponi su tela. Sono oggetti vissuti, carichi di storia. Sarei curiosa di sapere se anche dietro alle Porte si cela un qualche processo, perché è questo che l’osservatore si chiede. Detto altrimenti: Com’è nata l’idea delle Porte? E come l’hai sviluppata dentro di te?

Le porte mi intrigano: simboleggiano un essere sulla soglia, l’equidistanza tra uno stato superato ed uno non ancora raggiunto. Sono metafore del cammino, di uno stare a metà. L’essere sulla soglia narra il perpetuo fluire di una cosa verso l’altra, narra l’essere del divenire e il divenire dell’essere, la cui unica finitudine è la morte. Per certo sappiamo solo questo, che siamo esseri finiti:
nasciamo per morire. Fino a quell’istante danziamo l’incessante danza del divenire, dell’arrivare e del dipartire. Ognuno di questi passaggi si presenta in forma diversa – sempre premesso che si abbia il coraggio di affrontarli. Mi viene in mente il prologo al Processo di Kafka, il morituro che davanti alla porta del custode domanda a questi perché non gli abbia mai concesso di passare, ottenendo per tutta risposta che era perché lui non glielo aveva mai chiesto.

Quanto alle mie porte, esse si propongono come portatrici di un clima provvisorio sempre diverso. Ce n’è una briosa, una piccolina con gli spioncini, una austera, quasi gotica; una che promette passione e infine una che invita fuori porta a contemplare la natura. L’anno scorso, per la mostra al Kulturbahnhof di Kassel, progettai sette porte riprendendo il tema dei sette giorni settimanali. Per il lunedì avevo pensato una porta blu, forse per via del Blauer Montag1, chissà. Suppongo che moltissime cose mi derivano dal subconscio o inconscio. L’intenzione, in ogni caso, era quella di re-inventare il lunedì per mezzo di un unico colore, il blu per l’appunto, che avrei modulato nelle varie tonalità con l’ausilio di un po’ di bianco. Il risultato fu che questa porta parlava sia del Fiore Azzurro, sia del Night Express: di uno stare-con-sé notturno e solitario, di un essere-per-sé con il tempo per riflettere. Sentii quindi il bisogno di associarvi degli oggetti pensili. Una stella che pende da un chiodo, una scarpa sospesa nel vento; un tulipano che cresce lungo i bordi, una piccola tavola che parla di casali – già, perché proprio soli soli alla fine mica sappiamo starci! Serve quanto meno un cane. Ed eccomi dipingere un cagnolino, che poi inchiodo tutto storto sulla porta. Ora questa porta è cosparsa di oggetti blu su sfondo blu, e la vita che essa contiene si dispiega  su molteplici livelli.

La porta di bronzo – fu un contadino a portarmi il modello – l’avevo collocata davanti ai binari, nel luogo simbolo delle partenze e degli arrivi. Dopo tutto anche questo è un gioco. Come disse una volta Kurt Schwitters, noi giochiamo finché la morte non viene a prenderci. Da me in Italia, questa porta, che ha un’anta aperta ed una chiusa, la sistemerò sul ciglio di una delle terrazze, affinché attraversandola con il pensiero tu intraprenda un passo nel nulla, nel vuoto …

Come si sviluppa il dialogo tra te e l’opera alla quale lavori? Voglio dire, tu influisci su ciò che fai, trovi delle cose, le riordini, conferisci loro un nuovo messaggio, a volte forse anche un nuovo significato. Esiste una dinamica che opera al contrario? Cosa accade in te mentre lavori? È azzardato dire che dalla frequentazione dei reperti ti provengono nuovi modi di vedere, forse persino qualche epifania?

È un dialogo a tratti molto intrigante. L’opera nascente può ispirarmi premure e tenerezze, tuttavia anche rabbia e aggressività. Delle volte mi capita di prenderla a martellate, di tirarle addosso il colore. Oppure di annientarla in uno scatto d’ira e di ricrearla dal nulla. L’arte è sempre disturbo, sempre anche la disponibilità a distruggere e dissolvere, a ricreare qualcosa ex novo. Guai a invaghirsi di una forma, si diventerebbe decorativi.

L’arte è un dialogo che conduci con te stesso e un interlocutore immaginario. Personalmente sono soddisfatta quando dentro questo dialogo trovo un equilibrio, un’armonia che al proprio interno può – e a volte deve – serbare qualcosa di irrisolto. Una di quelle armonie che quando decidi di uscire dai margini, aggiungere una pennellata o un qualche oggetto, ti continua a funzionare appena appena, una in cui ciò che pende dalla canna da pesca finirà per ritrarsi, perché eccessivamente precario. Un qualcosa di sensibilissimo, insomma, che sta in bilico ma non cade, che porta in sé l’abisso, ma al dunque sa sottrarsi alla morte …

Da come lo racconti, un lavoro faticoso e sfibrante. Suppongo però che tu abbia il tuo tornaconto. Di cosa si tratta?

Quando questa cosa sensibilissima riesce, allora è lei a donarti energia. Provi una gioia pazzesca, un senso di quiete profonda, sensazioni non durevoli, purtroppo, ma pur sempre molto intense. A parte questo hai le tue isole ricreative dove finita una certa cosa ti ritiri a riposare. È un po’ come quando durante un viaggio te ne sali su una collinetta, ti guardi intorno e tutto soddisfatto ti dici: «Accipicchia, non male fin qui!» Dopodiché prosegui. Delle volte fai degli scivoloni e finisci gambe all’aria, ma poi ti riprendi e tiri avanti. Ecco,  governare tutte queste dinamiche, tenere la rotta a dispetto dei caos – questo è il lavoro.

Perché la quiete di cui parlavi non dura? Cos’è che ti spinge avanti?

Mah, suppongo sia l’inquietudine, l’urgenza di procedere. È che l’effetto consolatorio dopo un po’ finisce, e allora devo procurarmene uno nuovo. A volte penso che sia come una droga. Ho perennemente bisogno di nuove risposte, perennemente bisogno di sincerarmi, di assicurarmi nel mondo. Ogni volta è come conquistare un nuovo lembo di terra.

Ci sono mai stati dei momenti o degli oggetti nel tuo lavoro che ti hanno fatto pensare ecco, facendo questo ho raggiunto un punto importante?

È più facile che accada con i bronzi. Quando una scultura finisce su una piazza provi una sensazione stranissima, fin troppo intima. In qualche modo ci resti legata, dopo tutto è una tua creatura. Pensi: oddio, speriamo che sia ancora viva, che la gente le voglia bene. Io non uso piedistalli per principio, pertanto, venendo a contatto con il pavimento, la scultura si trasforma in oggetto ludico, si propone al contatto, vuole essere toccata. Ecco, quando la gente fa questo, io sto bene. Capita che sopra un PEGASO o GRANDE CERBERO ci trovi seduti dei bimbi o una coppia di fidanzati, e io stessa mi ci arrampico.

Con l’usura si forma una patina naturale, di un giallo aro molto caldo, che narra la storia degli incontri: sono questi i miei punti di sosta, le tappe che mi restituiscono qualcosa.

Può anche darsi che un quadro riesca oltre le aspettative e con un megarombo – boom!!! – ti catapulti dentro un nuovo ciclo: in questo caso l’energia che racchiude si conserva, e torna a te ogni volta che lo guardi.

Hai dei pezzi preferiti?

Amo malta il mio PEGASO, protende così tanto le fauci al cielo da imbrigliarci financo i riflessi lunari, oltre a quelli del sole. Fa a meno delle ali, ti ci siedi sopra comodamente, e una volta seduto, le ali spuntano a te, staccato ormai da terra quanta basta per dare inizio ai tuoi sogni .

Poi mi piace la serie delle TRACCE, perché t i fa capire che l’arte è una presa di posizione, un modo di collocarsi, dice come stai al mondo, come ci resisti. Sono pannelli di bronzo sui quali lascio impronte, impressioni e oggetti, proprio come tutte le altre persone di cui raccolgo le tracce: giocattoli abbandonati in spiaggia, scarpe, suole. Sono finiti con una patina tipo pittura fiamminga del Seicento, una che ricopre tutto di una lieve quanto magica nota aurea e pertanto ammanta il caduco di una dolce luce – preziosa, consolatoria e misteriosa. Il tutto vuole anche essere una sorta di riappacificazione con la storia e la propria finitudine.

Quanto ti costa separarti da queste opere? Come artista non puoi certo fare a meno di venderle, tuttavia lì dentro ci sono il tuo cuore, il tuo sangue e la tua anima. Poi viene uno, paga e se le porta via. Come affronti questa cosa?

Dipende. Se parliamo dei bronzi fai conto che le copie eseguite sono solitamente tra le cinque e le otto, per cui, male che vada, una riesco sempre a tenerla per me. Finisce nel mio giardino, o se preferisci parco, e contribuisce a far crescere la collina.

Altra cosa sono i quadri, in quanto questi, una volta venduti, davvero non ci sono più. Alcune vendite, poi, fanno più male di altre. Ogni tanto riesco a trattenere qualcosa, ma non sempre me lo posso permettere. D’altro canto il fatto di vendere è la riprova che il tuo lavoro a qualcuno piace al punto da suscitargli il bisogno di possederlo. Il fatto è che l’arte deve circolare. Quanti più dei miei messaggi ci sono nel mondo … di questo sorridere, di questo «eppure», di quel piccolo residuo nel nostro mondo rimasto refrattario all’interesse, tanto più mi convinco di riuscire a dire ciò che voglio dire – e che la gente mi apprezza.

Mentre lavori tieni conto anche dell’osservatore? Quello vede l’opera finita, e della spiaggia dove hai trovato delle cose non sa nulla. Qualche volta ti poni il problema se ciò che dici venga effettivamente recepito? A che punto entra in gioco l’osservatore?

Io mi preoccupo innanzitutto di conseguire un onesto pezzo d’arte, concentrandomi su ciò che faccio, attingendo alla professionalità di cui dispongo e inseguendo la verità. Il mondo penetra dalla mia pelle porosa e la attraversa senza filtri: in questo modo vengo a contatto con l’osservatore, con il suo modo di posizionarsi nel mondo, con il sapore che il mondo ha oggi. Apro quindi i miei pori nel tentativo di sentire, captare, riprodurre e trasmettere, di trovare da qui il mio «eppure», di tessere il mio pensiero, come tesi o antitesi . In ultima analisi però conta una cosa sola, e cioè se l’osservatore sia capace o disposto a trovare una chiave d’accesso a quanta propongo.

Se le mie cose non hanno pubblico, allora il mio resta un linguaggio privato, e il mio discorso è puro soliloquio. Compito dell’artista è riconoscere un pezzo di mondo, fissarlo con il proprio mezzo e metterlo a disposizione degli altri, i quali, dovendosi riprodurre altrimenti, non hanno né imparato a esprimersi in questo modo, né il tempo necessario per farlo.

Da cosa capisci che un’opera e finita, e come descriveresti questo momento?

Si tratta di un momento molto eccitante. Se nella vita spesso posso essere indecisa, nell’arte ho una cognizione precisissima di quando una cosa e finita: ciò si verifica al raggiungimento di quel famoso «equilibrio di flusso» di cui dicevo prima, quella sorta di sospensione che al minimo bisticcio precipita senza appello. Prima faccio un sacco di prove e controprove, magari rigirando per venti volte un unico ciuffo di colore o un unico chiodo. Fatto questo, lascio riposare il tutto per un po’, pur avvertendo già l’eccitazione di una conclusione. Nel frattempo ci giro intorno, sbircio con la coda dell’occhio, e mi allontano

nuovamente. Convivo con questa specie di sospensione per almeno un giorno, sempre assaporando, provando e osservando: va bene così,o c’è ancora qualcosa che cade, che sta troppo in alto? Trascorso lo spazio di ventiquattro ore dichiaro la conclusione, appongo la firma e affido il tutto al mondo. Continuo a guardare provando, ma in fondo si tratta solo di una piccola, ultima verifica. Giunta a questo punto è ben difficile che intervenga ancora.

Ti è mai successo di non riuscire a terminare una cosa?

Non che ricordi. Se una cosa è sul punto di fallire io la percepisco come provocazione e mi attivo per ripescarla dalle fauci primigenie dei caos. Finora l’esperienza mi ha insegnato che è solo una questione di tempo, di quanto uno ci lavora. In ogni caso spero di non arrivare mai alle tele nere di Reinhards, pago del proprio lavoro solo se approdava a questo, benché anche la sua fosse una soluzione assolutamente geniale.

Abbiamo già detto che nell’opera che crei entra buona parte di te stessa. Per certi aspetti, pertanto, essa è autobiografica. Mi chiedevo tuttavia in che misura essa lo è e soprattutto fino a che punto tu sia interessata a essere riconosciuta nelle opere.

In occasione dell’ultima grande mostra di bronzi a Kassel sono stata avvicinata da una signora che voleva conoscermi.

Mi disse che con le cose che faccio ero riuscita a regalarle un sorriso. Ciò mi conferma che una parte di me viene effettivamente ceduta all’opera: c’è forza, coraggio, predisposizione al rischio, baldanza, abisso e gioco, nonché il sempre reiterato tentativo di volgere un destino passivamente sofferto in uno attivamente vissuto, in questo uguale a Sisyfo che, condannato a spingere fin sulla cima di un’altura un gigantesco masso, fischietta allegramente al pensiero della liberatoria discesa che lo attende.

Con umorismo, l’umorismo di chi è disperato. Oppure con ironia. Ogni opera ha poi una sua storia che è ovviamente legata a quella dell’artista.

Ora vivo in Italia, in prossimità del mare, e così da circa due, tre anni hanno acquistato un ruolo di primo piano i reperti della spiaggia.

Lavorando molto in fonderia, sono diventate esteticamente rilevanti anche le tavole bruciate con tutto il loro corollario di attrezzi. Nei momenti di stanchezza, quando mi lascio andare, questi oggetti sono capaci di manifestarsi ai miei occhi nelle fogge più impensate e bizzarre, diventando così eleggibili ai fini della mia arte.

Avendo lasciato una casa che amavo molto, a un certo punto ho iniziato a occuparmi anche di case che, una volta introdotte nei miei quadri, hanno preso a funzionare come metafore del nido, della minaccia, dell’asilo o del desiderio. E siccome viaggio parecchio, alla fine tutto questo è culminato in una mostra sull’essere in viaggio.

Come vedi la situazione autobiografica c’entra sempre. Quanto alla questione fino a che punto ci sono io come persona non saprei, credo che la cosa semplicemente accada: se per esempio faccio un disegno con la mano sinistra, anche a occhi chiusi, posso esse re certa che la forma tracciata rifletterà esattamente il mio stato d’animo in quel momento. Persino modellando un piccolo bronzo posso chiudere gli occhi e affidare il lavoro alle mie mani. Oltrepassato un certo punto il pensiero migra nelle punte delle dita e l’intero sistema che tu rappresenti e hai acquisito si trasferisce nell’opera, che poi puntualmente ti riflette. Barare in questo contesto non ha senso, sarebbe stupido e vanitoso, produrrebbe una forma meramente decorativa che riconosci all’istante, inoltre lascerebbe l’artista con un senso di vuoto. Detto altrimenti, l’artista come persona deve darsi completamente, con pieno rischio.

Tu sei laureata in storia dell’arte e filosofia, le questioni dell’arte pertanto le hai sviscerate scientificamente. Sono cose che ti accompagnano a livello conscio o inconscio, conosci queste tradizioni. I modelli filosofici o le teorie storico-artistiche hanno una qualche incidenza sul tuo lavoro di oggi?

Io sono quella che dipinge e scolpisce, il che vuol dire che ho in mano delle cose – molto più che in testa. La testa ispira, la mano pensa. Ciò che mi accompagna fino ad oggi è la filosofia, molto più che la storia dell’arte. Certo, questa mi ha insegnato a vedere, a percepire la qualità, mi ha dato l’incorruttibilità dell’occhio. La filosofia però mi ha fornito la carne per rimpolpare questa ossatura, e in questo rapporto nulla è cambiato. Complice anche la fortuna di aver avuto per maestro, sin dagli esordi, un pensatore quale Odo Marquard, i cui insegnamenti mi sono presenti tutt’oggi. Oggi forse anche di più che al tempo degli studi, visto che la complessità di molte case l’ho compresa pienamente solo in seguito, magari solo ultimamente: mi è capitato per esempio leggendo la recente raccolta di saggi Zukunft braucht Herkunft2, un concetto che a suo tempo sentii per la prima volta durante una lezione e che da allora determina il mio pensiero artistico, influendo molte volte direttamente sull’opera. Penso alla Tracce, alle tavole bruciate, ai reperti.

In un’intervista concessa allo Spiegel Marquard decanta l’orsacchiotto e il leoncino di peluche come metafore della fanciullesca fiducia nel mondo; poco prima avevo giusto finita di fondere un orsetto in bronzo per l’albero della mia infanzia, una betulla, sulla quale egli si arrampicherà per sempre. «L’arte sta nelle cose che uno non sa fare, perché quando le sa fare esse non hanno arte», disse una volta provocatoriamente. Ma questa utopia del fallimento, del fallimento come chance: il balbettio, la lotta e la ricerca della verità, il progettarsi, tutto questo è assurto a filo conduttore del mio fare artistico.

Carin, qual è il tuo prossimo sogno?

Domanda seducente. Per una che compie 50 anni, che riflette su quanto è stato e su quanta sarà, una che forse fa più bilanci ehe progetti, ti devo dire che oggi sono più le piccole cose a interessarmi. Facendo scultura da circa tre anni e mezzo e avendo lavorato e imparato molto avrei voglia di cimentarmi con un bronzo che travalichi la mia misura umana. Progettare ad esempio un grosso animale, un enorme Micioazzurro con passeggiata sottoventre. Oppure una grande figura, con una scarpa su cui ti puoi sedere mentre lei ti guarda dall’alto. Roba che farà scorrere ancora un bel po’ di adrenalina, suppongo.

Ma la mia vita di adesso è anche ricolma di tante piccole gioie quotidiane, farfalline che attraversano la mia casa e ogni tanto si posano sul bordo del piatto, lucciole che illuminano il mio giardino di sera, rane che gracidano … Tutto questo è di una bellezza unica, e la gioia che ne ricavo è per me autentica ricchezza. Davanti a questo non c’è sogno che tenga.

Almeno per un po’ …

1 Letteralmente: «Lunedi blu»
Corrisponde al concetto di «lunediana« / «fare la lunediana»

2 Letteralmente: Il futuro ha bisogno del passato