Carin Grudda, ovvero il seducente recupero dell’effimero

Saggio di Luciano Caprile

 

«L’idea del caso, a cui molta gente di quel tempo pensava, mi aveva ugualmente colpito. L’intenzione consisteva soprattutto nel dimenticare la mano perché, in fondo, anche la mano è un prodotto del caso. Il caso mi interessava solo come mezzo per andare contro la realtà logica: mettere qualcosa su una tela, su un pezzo di carta, associare l’idea di un filo, eretto orizzontalmente lungo un metro che cade da un metro d’altezza su di un piano orizzontale, a quella della sua deformazione … . »1.

Così si esprimeva Marcel Duchamp in relazione alle sue prime esperienze con «l’objet trouvé».

D’altronde il caso assume da sempre un ruolo importante nell’arte: non è  forse vero che Leonardo prendeva talora spunto creativo dalle muffe che disegnavano figure fantasmatiche sui muri? E non è forse vero che il Picasso di «io non cerco, trovo» inseguiva il percorso dell’ispirazione lungo le macchie zooantropomorfe lasciate opportunamente espandere sulla carta assorbente trattata con l’inchiostro acquerellato? Oggi le cose non sono cambiate per l’artista che intenda indagare il mistero conservato ed elargito dall’imponderabile, dall’inatteso, dall’incontro del gesto con l’oggetto scelto dall’inconscio, dall’evoluzione di questo gesto che cambia il significato d’uso e cambia la vita di chi intraprende un simile percorso.

Lo sa bene Carin Grudda che su tale versante ha costruito un tragitto artistico ricco di invenzioni e di sorprese, di mutamenti metamorfici, di incontri rivelatori con se stessa e con le occasioni della vita. Non a caso la sua ricerca parte da «dada», dall’«action painting» di pollockiana memoria, dall’«art brut» e da tutti i comportamenti che rimandano alla sacralità del gioco, al segno selvaggio e liberatorio del bambino, all’impronta essenziale e misteriosa dei riti arcaici. E non a caso le sue prove più genuine, più spontanee e più coinvolgenti dal punto di vista cromatico, concettuale ed emozionale sono scaturite tra gli ulivi sofferti e contorti di Lingueglietta, una conca di verde protesa verso il mare dell’estrema Riviera di Ponente che offre ogni riparo e ogni appiglio ai suggerimenti della natura. Quindi Carin, scesa dalla Germania del nord con il suo carico di cultura e di tradizione temperate e collaudate da molteplici esperienze in giro per il mondo, ha trovato se stessa (ovvero la parte più remota e più autentica di sé) nell’essenziale e reiterato rapporto con una terra aspra e seducente, capace di portare alla superficie quei valori della vita da evocare e da coltivare in certe ore toccate dalla solitudine.

Basta volgere lo sguardo intorno a queste rocce e a queste «fasce», basta interrogare con lo sguardo e con lo spirito ogni oggetto che s’ incontra lungo qualunque ideale percorso, per comprendere veramente i preziosi suggerimenti dell’imponderabile, per resuscitare dal profondo dell’anima immagini semplici e assolute, trascurate o sepolte dalla cecità della vita di tutti i giorni.

Attraverso la contemplazione di questa natura è nato in lei il desiderio di tradurre con il legno e con il ferro, sulla carta e sulla tela il tema della metamorfosi continua e necessaria per il rinnovamento dell’esistenza. Anche l’arte deve seguire tale processo mettendo in discussione se stessa. Rinnovare per lei vuol dire distruggere, disturbare la consuetudine. Ha detto:

«Disturbare per me significa insistere sui piccoli sentimenti; significa insistere su una quotidianità che non funziona, su una sensibilità finita fuori rotta.» Occorre dunque riprendere il discorso daccapo, dalle origini, ovvero dai gesti arcaici dell’uomo e dai comportamenti artistici della primissima infanzia. Ovvero occorre riannodare i fili della sensibilità genuina, della trasparenza emozionale, della stupefazione immediata.

Joan Mirò, e non solo lui, contemplava ammirato i disegni dei bambini non ancora scolarizzati, in un’età in cui tutti siamo dei grandi artisti. Carin Grudda si pone nella stessa situazione comportamentale e mentale mentre si offre all’attesa dell’ispirazione che le piove da ogni angola del suo mondo incantato. Lei vede e fa suo quello che gli altri osservano ma non vedono, lei assorbe dalle cose e dall’aria emozioni trascurate dalla corsa superficiale delle sensazioni della gente. Raccoglie oro dove gli altri calpestano terra, traccia percorsi magici lungo i tragitti  frequentati dalla pattumiera. Così recupera anche la mitologia, la grande mitologia del passato da collegare alla consumistica mitologia dell’oggi; così la metamorfosi ovidiana fa i conti con Dubuffet, con Duchamp, con Spoerri e con Claudio Costa. Le sculture e le altre opere dipinte, che decidono le nostre stazioni sul verde del prato e nella riparata sorpresa delle stanze, non sono soltanto un omaggio ad alcuni maestri di specchiato riferimento e a se stessa ma si propongono come una decisa dichiarazione di intenti. Da lì è transitato il passato di tutti, da lì può prendere avvio l’idea di un futuro.

In questa indagine, che riguarda il suo lavoro degli ultimi anni, non possiamo dunque scindere il gesto dal supporto, ovvero dall’elemento di base o di sostegno che ha promosso tale gesto. Prendiamo la serie delle «porte» dipinte che preferibilmente suggeriscono alcuni personaggi da svolgere in senso verticale. Tali figure si adattano mirabilmente alla struttura originale delle assi, alla precarietà del listelli di sostegno trovandovi una inattesa e straordinaria suggestione iconografica. Cosicché un braccio cresce lungo un’aggiunta trasversale del legno e acquista una forza primitiva nel sostenere un fiore.

Questo è un personaggio in bianco e blu, essenziale e magico come possono essere essenziali e magici i graffiti cresciuti spontaneamente sui muri dell’eternità (il candido ovale del viso attende l’assalto del becco di un uccello mentre il piede già esce dal contorno della scena).

Un altro protagonista, più ruvido e selvatico nella sequenza deì chiodi/capelli, usa invece l’anta superiore come cornice ferrosa del viso; il doppio collo metallico aggancia intanto il corpo che si confonde con l’essenziale struttura e con le rugginose sottolineature della rimanenza. Quasi un vero e proprio «ready-made».

In mezzo trovano terreno fertile i voli di una fantasia sempre guidata dai segni e dai disegni delle cose che c’erano e che non si debbono ignorare; anzi sono il viatico necessario per intraprendere proficuamente, come fa Carin Grudda, uno straordinario viaggio nella creatività. Ma anche frammenti in apparenza trascurabili possono suscitare folgoranti idee. Così uno scarto di compensato diventa un animale a cinque zampe con il supporto di una testa «trovata» e di uno spago appiccicato nel ruolo di coda.

Lo stesso discorso vale per una mezzaluna rosicchiata e ravvivata dai toni della festa o dalle macchie che aiutano a crescere un guerriero a tre gambe di stupefacente forza emotiva. E così via, senza inseguire un particolare titolo e una determinata opera perchè tale considerazione vale  per l’intero percorso che la nostra artista costruisce con gli oggetti che incontra e con i colori e con i segni che a tali oggetti si sposano.

A partire dal 1998 Carin Grudda si avvicina alla scultura e alle sue seduzioni che in un prima tempo coinvolgono il discorso pittorico, ovvero le strutture in ferro, realizzate assemblando e saldando materiale di recupero, che incorniciano e trasportano su ruote i dipinti. Nascono così gli ANGELI PORTABILI. Intanto conosce il bronzo alla Fonderia Pietro Caporrella di Torrita di Siena e rimane affascinata dalle molteplici opportunità compositive che si spalancano davanti ai suoi occhi. Da quel momento tale attività, che assume una valenza parallela rispetto a quella pittorica, prende due strade distinte.

La prima riguarda quel versante fantastico da lei già coltivato prevalentemente sui legni: ci riferiamo in particolare al PEGASO e al GUARDIANO cresciuti nell’immaginario favolistico o ad altre prove di spirito surreale scaturite dall’incontro di elementi tra i più disparati.

La seconda conduce invece verso un discorso più concettuale, in cui gli oggetti mantengono il loro ruolo mutando lo spirito e modificando il paesaggio con cui entrano in contatto e talora in competizione. Citiamo in proposito L’OMMAGGIO A BEUYS e la serie dei reperti (TRACCE) regalati dalla spiaggia, modellati e fusi in formelle quale testimonianza di un tempo in lento e reiterato divenire. La piccola memoria del trascurabile si sostituisce alla grande memoria dell’eternità.

Carin Grudda sparge e distribuisce questi doni che riceve ogni giorno dalla sua curiosità e dal suo cammino, magari mentre trascina a terra le lastre di zinco per l’opportuna contaminazione del caso prima della raffinata incisione del personale racconto. La vita per lei si muove così, in attesa della sorpresa a ogni passo, in attesa del miracolo che avviene ogni giorno con la luce del sole e con la  promessa della sera evocata, come fosse una delle sue favole, dal gracidare delle rane.

Tutto questo succede a Lingueglietta, per merito di Carin Grudda, a uno sguardo dal mare.

Giugno 2003

1Marcel Duchamp, Ingegnere del tempo perduto,
Multiphila Edizioni, Milano, 1979